Giorgio Vasari - Opera Omnia >> Le vite de più eccellenti architetti, pittori et scultori |
ilvasari testo integrale, brano completo, citazione delle fonti, commedie opere storiche opere letterarie in prosa e in versi, operaomnia # Tanto si inganna il discorso nostro e la cieca prudenzia umana, che bene spesso brama il contrario di ciò che piú ci fa di mestiero, e credendo segnarsi (come suona il proverbio tosco) con un dito si dà nell'occhio. Il che, se bene apparisce manifestissimo in una infinità di cose che lo fanno palpare con mano, la vita nientedimeno, che al presente vogliamo scrivere, ce lo farà piú chiaro et aperto col suo esemplo. Con ciò sia che la publica et universale opinione degli uomini affermi assolutamente che i premii e gli onori accendino et infiammino gli animi de' mortali a gli studii di quelle arti che piú veggono remunerate; e per l'opposito che il non premiare largamente gli artefici, gli conduca a disperazione e conseguentemente a trascurarle et abbandonarle. E per questo gli antichi e' moderni insieme biasimano quanto piú sanno e possono tutti que' principi che non sollievano i virtuosi, di qualunque genere o facultà, e non danno i debiti premii et onori a chi | virtuosamente se li affatica. Chiamandoli per questo avari, crudeli et inimici delle virtú, e se peggior nome può ritrovarsi, et attribuendo alla loro miseria tutto il danno dello universo. E nientedimanco abbiamo pur veduto ne' tempi nostri che la sola liberalità e magnificenzia di quel famosissimo principe, a chi serviva Sebastiano Veneziano eccellentissimo pittore, remunerandolo troppo altamente, fu cagione che di sollecito et industrioso diventasse infingardo e negligentissimo. E che dove, mentre durò la gara della arte fra lui e Raffaello da Urbino, si affaticò di continuo per non essere tenuto inferiore in quella arte, nella quale cozzava di pari; per lo opposito, fece tutto il contrario poiché egli ebbe da contentarsi, lavorando poi sempre malvolentieri e con una fatica grandissima, anzi per forza, e sviando lo ingegno e la mano da quella sua prima facilità, tanto lodata mentre che e' fece. Per la qual cosa (lasciando ora il parlar de' principi) da questa disparità di vita si conosce il cieco giudizio ch'io ragionava, e comprendesi apertamente che gli ingegni non vorrebbono patire, né ancora d'onori o d'entrate sopra abbondare: se già non fossero in alcuni che piú gli strignesse l'onore dell'opere, che il comodo e gli agi della vita epicurea. Dicono che Sebastiano in Vinegia nella prima sua giovanezza si dilettò molto de le musiche di varie sorti. Ma perché il liuto può sonar tutte le parti senza compagnia, quello continuò di maniera che insieme con altre buone parti, che aveva, lo fece sempre onorare, e fra i gentiluomini di quella città per virtuoso conoscere. Vennegli volontà d'attendere all'arte della pittura e con Giovan Bellino allora vecchio fece i principii dell'arte. Avvenne che Giorgione da Castel Franco mise in quella città i modi della maniera moderna | piú uniti e con certo fumeggiar di colore, per il che Sebastiano si partí da Giovanni, e si acconciò con Giorgione col quale stette fino a·ttanto, che egli prese una maniera che teneva forte delle cose di Giorgione e di quella di Giovan Bellino ancora. Fece in Vinegia molti ritratti di naturale, come è costume di quella città. Né passò molto tempo ch'Agostin Chigi sanese, grandissimo mercante, che in Vinegia faceva faccende, cercò di condurre Sebastiano a Roma, avendogli posto amore per il liuto ch'e' sonava, e per essere piacevole nella conversazione. Né fu troppa fatica a persuaderlo, per avere egli inteso, quanto l'aria di Roma fosse propizia a i pittori et a tutte le persone ingegnose. Inviossi dunque a Roma con Agostino e, pervenuti in quella, Agostino lo mise in opera e gli fece fare tutti gli archetti che sono su la loggia, che risponde su 'l giardino dove Baldassarre Sanese aveva fatto la sua volta dipinta; ne i quali archetti Sebastiano fece cose poetiche di quella maniera che aveva recato da Vinegia, molto disforme da quella che usavano in Roma que' valenti pittori. Aveva Raffaello fatto in questo medesimo luogo una storia di Galatea, e Sebastiano non stette molto che fece un Polifemo in fresco, allato a quella, nel quale cercò d'avanzarsi piú che poteva, spronato dalla concorrenza di Baldassarre Sanese e poi di Raffaello. Colorí alcune cose a olio, delle quali per avere egli da Giorgione imparato un modo morbido di colorire, ne tenevano in Roma un grandissimo conto. Aveva in questo tempo preso in Roma Raffaello da Urbino nella pittura una fama sí grande, che molti amici et aderenti suoi dicevano che le pitture di lui erano di quelle di Michele Agnolo, secondo l'ordine della pittura, piú vaghe di colorito, piú belle d'invenzione e d'arie piú | vezzose e di corrispondente disegno, talché quelle di Michele Agnolo Buonaroti non avevano, da 'l disegno in fuori, nessuna di queste parti. E per questa cagione giudicavano Raffaello essere nella pittura se non piú eccellente di lui, almeno pari, ma nel colorito volevano che in ogni modo lo passasse. Questi umori seminati per molti artefici, che piú aderivano alla grazia di Raffaello, che alla profondità di Michele Agnolo, erano divenuti per lo interesso piú favorevoli nel giudicio a Raffaello, che a Michele Agnolo. Per il che, destato l'animo di Michele Agnolo verso Sebastiano, piacendogli molto il colorito di lui, lo prese in protezzione, pensando che, se egli usasse lo aiuto del disegno in Sebastiano, si potrebbe con questo mezzo, senza che egli operasse, battere coloro che tenevano tale opinione, et egli sotto ombra di terzo giudicare quali di loro facesse meglio. Furono questi umori nutriti gran tempo cosí, in molte cose che fece Sebastiano, come quadri e ritratti, e si alzavano l'opere sue in infinito, per le lodi dategli da Michele Agnolo. Alle quali opere, oltra l'essere di bellezza, di disegno e di colorito, facevano grandissima credenza le parole dette da Michele Agnolo ne' capi della corte. Levossi in questo tempo su un messer non so chi da Viterbo, il quale era molto riputato appresso il papa; e per una sua cappella, che in Viterbo aveva fatto, in San Francesco, fece fare a Sebastiano un Cristo morto con una Nostra Donna che lo piagne. Della quale opera Michele Agnolo fece il cartone, e Sebastiano di colorito con diligenza lo finí; et in quello fece un paese tenebroso, che fu tenuto bellissimo. La quale opera gli diede credito grandissimo e confermò il dire di que' che lo favorivano. Aveva Pier Francesco Borgherini mercante fiorentino in San Pietro in Mon|torio, entrando in chiesa a man ritta, preso una cappella, la quale col favore di Michele Agnolo fu allogata a Sebastiano. Credeva Sebastiano trovare il buon modo, che 'l colorire a olio in muro si potesse fare: perché questa cappella con mistura nella incrostatura dello arricciato del muro acconciò di maniera, che quella da basso, dove Cristo alla colonna si batte, tutta a olio lavorò nel muro. Fece Michele Agnolo il disegno piccolo di questa opera, e si giudica che il Cristo che alla colonna si batte sia contornato da lui per essere grandissima differenza da l'altre figure a quello. Atteso che, se Sebastiano non avesse fatto altra opera che questa, per lei sola meriterebbe essere lodato in eterno. Sono fra l'altre cose in questo lavoro alcuni piedi e mani bellissime. Et ancora che quella sua maniera sia un poco dura, per la fatica ch'egli durava nelle cose che e' contrafaceva, si può nondimeno fra buoni e lodati artefici numerarlo. Come in fresco ancora di sopra a questa istoria si vede ne i due profeti, e la storia della Trasfigurazione nella volta. Ma i due santi, San Piero e San Francesco, che mettono in mezzo la storia di sotto, sono vivissime e pronte figure. E benché in sí piccola opera egli penasse sei anni, attribuendoli ciò a troppa tardità nelle cose, quegli che o presto o tardi l'opera a fine perfettamente conducono, non si debbe però mai guardare né alla celerità del tempo, né ancora alla tardità di chi opera. Con ciò sia che basta il bello delle cose a renderle tardi o per tempo perfette, se bene ha piú vantaggio e piú lode chi tosto e bene l'opere sue conduce. Nello scoprire di questa opera lo mostrò Sebastiano che, ancora che assai penasse, avendo fatto bene, le male lingue si tacquero, e pochi furon quelli che lo mordessero. Faceva Raffaello per il Cardinale de' Medici quella ta|vola, per mandarla in Francia, la quale dopo la morte sua fu posta allo altar principale di San Piero a Montorio, dentrovi la Trasfigurazione di Cristo; e Sebastiano in quel tempo fece anco egli una tavola della medesima grandezza in concorrenza di quella di Raffaello, dove è un Lazzaro quattriduano e la resuressione, la quale fu contrafatta e dipinta con diligenza grandissima, sotto ordine e disegno in alcune parti per Michele Agnolo. Le quali tavole in palazzo publicamente nel concistoro furon poste in paragone, et ambedue di mirabilissima maestria furono tenute. E benché Raffaello di grazia e di bellezza in ciò portasse il vanto, nondimeno furono ancora le fatiche di Sebastiano universalmente lodate per gli artefici et ingegnosi spiriti. L'una mandò il cardinale in Francia a Nerbona, al vescovado suo, e l'altra nella cancellaria suo palazzo publicamente si mise, finché a San Pietro a Montorio fu portata con l'ornamento che ci lavorò Giovan Barile. Per il che Sebastiano acquistò tal servitú col cardinale per questa opera, che nel suo papato meritò d'esserne rimunerato nobilmente, come diremo. Era morto Raffaello da Urbino in questi giorni, onde il principato dell'arte della pittura, per il favore che Michele Agnolo aveva volto a Sebastiano, volevano pervenisse a lui. Talché Giulio Romano, Gio[van] Francesco Fiorentino, Perin del Vaga, Polidoro, Maturino, Baldassarre Sanese e gli altri perciò rimasero a dietro, per lo rispetto che avevano a Michele Agnolo e per essere morto l'uno di due concorrenti. E però Agostin Chigi, che per ordine di Raffaello faceva fare la sua sepoltura e cappella in Santa Maria del Popolo, fece contratto con Sebastiano, che tutta la volta e le parte gli dipignesse, la quale opera si turò allora, né mai piú s'è veduta né scoperta né mol|to lavoro vi ha egli fatto, ancora che n'abbia per ciò riceuto de gli scudi piú di 1200, perché sí come stanco nelle fatiche dell'arte e poi involto nelle comodità de i piaceri, la pose in abbandono. Il medesimo ha fatto a M[esser] Filippo da Siena, cherico di camera, per lo quale nella Pace di Roma, sopra lo altar maggiore cominciò una storia a olio sul muro, dove il ponte stette nove anni né l'opra si finí mai. Onde i frati, disperati di ciò, furono costretti levare il ponte, che gl'impediva la chiesa, e coprire quella opra con una tela, et aver pazienzia. Girando queste cose in tal modo, volse la sua buona fortuna che il Cardinale Giulio de' Medici fu fatto papa, e chiamato Clemente VII, il quale per mezzo del Vescovo di Vasona molto domestico di Sebastiano, gli fece intendere ch'era venuto il tempo di fargli bene. In questo tempo fece egli molti ritratti di naturale, che invero tenuti furono cosa divina e mirabile né tutti gli conteremo, ma alcuni. Ritrasse Anton Francesco de gli Albizi, che allora per alcune faccende sue si trovava in Roma, e lo fece tale, che e' non pareva dipinto, ma vivo. Onde egli, come preziosissima gioia, se lo mandò a Fiorenza nelle sue case. Eranvi alcune mani che certo erano cosa maravigliosa; taccio i velluti, le fodre, i rasi, che per Dio si può dire che questa pittura fosse rara. E nel vero Sebastiano nel fare i ritratti di finitezza e di bontà fu sopra tutti gli altri superiore, e tutta Fiorenza grandemente stupí di questo ritratto di Anton Francesco. Ritrasse in questo tempo ancora M[esser] Pietro Aretino, il quale oltra il somigliarlo è pittura stupendissima, per vedervisi la differenza di cinque o sei sorti di neri che egli ha addosso, velluto, raso, ermisino, damasco e panno, et una barba nerissima, sopra quei neri sfilata, certo da stupirne, che di similitudine e di carne si mo|stra viva. Tiene in una mano un ramo di lauro et una carta, dentrovi scritto il nome di Clemente VII, e due maschere inanzi, una bella per la virtú e l'altra brutta per il vizio; e certamente non si potrebbe a tal cosa aggiugnere. Ritrasse ancora Andrea Doria, che era nel medesimo modo mirabile, e cosí fece poi la testa di Baccio Valori della medesima bontà e cosí la testa del papa, che fu tenuta divina; dopo la quale insieme con le altre cose di lui, che infinite furono in questi ritratti, tutte di corrispondente bellezza lavorate e finite, egli nella corte di Sua Santità serviva con sommissione grandissima. Avvenne che fra' Mariano Fetti frate del Piombo si morí, e Sebastiano per mezzo del Vescovo di Vasona, maestro di casa di Sua Santità, chiese al papa l'ufficio del Piombo, e cosí Giovanni da Udine, che tanto ancor egli aveva servito Sua Santità in minoribus, e tuttavia la serviva. Ma il papa, per li preghi del vescovo e per la servitú di Sebastiano, ordinò ch'egli avesse tale ufficio e che sopra quello pagasse a Giovanni da Udine una pensione di ccc scudi. Laonde Sebastiano prese l'abito del frate, e subito si sentí per quello variar l'animo. E vedutosi il modo di poter sodisfare le volontà sue, senza colpo di pennello se ne stava riposando, e le male notti spese et i giorni affaticati ristorava con le entrate. E quando pure aveva a far nulla, si riduceva a 'l lavoro con una passione che pareva ch'andasse a la morte. Condusse con gran fatica al Patriarca d'Aquilea un Cristo che porta la croce, dipinto nella pietra dal mezzo in su, che fu cosa molto lodata, avvenga che Sebastiano le mani e le teste molto mirabilmente faceva. Era venuta in questo tempo in Roma la nipote del papa, che ora è Regina di Francia; fra' Sebastiano la cominciò a ritrarre, e quella non finí, la quale è rimasa nella guar|daroba del papa. Era allora Ippolyto Cardinale de' Medici innamorato della Signora Giulia da Gonzaga, la quale si ritrovava in Fondi, per il che come desideroso d'averne un ritratto, mandò fra' Sebastiano a Fondi per questo, che fu accompagnato da quattro cavalli leggeri. Et egli in termine d'un mese fece il ritratto che, venendo da le bellezze di quella signora ch'erano celesti, riuscí una pittura divina; la quale opera portata a Roma, furono grandemente riconosciute le fatiche di fra' Sebastiano dal reverendissimo cardinale, che aveva in ciò giudicio grandissimo. Questo ritratto veramente di quanti egli ne fece, fu il piú divino, venendo ciò dal suggetto di lei e da le fatiche di lui. Aveva cominciato un novo modo di colorire in pietra, la qual novità piaceva molto a' popoli, considerando che tali pitture diventassero eterne, cosí dette da fra' Sebastiano, né che il fuoco o tarli gli potessero nuocere. E cosí infinite cose cominciò in queste pietre, le quali faceva ricignere di ornamenti di altre pietre mischie belle, le quali lustrandole erano una maraviglia, ma, finite, non si potevano né le pitture né l'ornamento per il peso movere. E cosí con questa cosa molti principi, tirati dalla novità della cosa e dalla vaghezza dell'arte, gli davano arre di danari, ché facesse opere per essi, delle quali egli piú si dilettava di ragionare che di farle. Fece una Pietà con Cristo morto e la Nostra Donna in una pietra per Don Ferrante Gonzaga, il quale la mandò in Spagna con ornamento di pietra, che fu tenuta cosa molto bella, della quale cavò egli cinquecento scudi, che M[esser] Nino da Cortona agente dal Cardinale di Mantova in Roma gli donò. Era nel tempo di Clemente in Fiorenza Michele Agnolo, che finiva l'opra della sagrestia, e perché Giuliano Bugiardini potesse fare un qua|dro a Baccio Valori, dove ritrasse papa Clemente e lui, e cosí un altro, che il Magnifico Ottaviano de' Medici a esso faceva fare, dentrovi il papa e l'Arcivescovo di Capova, Michele Agnolo Buonaroti chiese a fra' Sebastiano che di sua mano gli mandassi da Roma dipinta a olio la testa del papa, la qual fece e la mandò, e quella riuscí cosa bellissima. Finite l'opere di Giuliano, Michele Agnolo, ch'era compare di M[esser] Ottaviano, gliene fece di poi un presente. E certo di quante ne fece fra' Sebastiano, che molte furono, questa è la piú simile di bellezza e di somiglianza. La quale oggi è in casa sua in Fiorenza fra l'altre belle pitture riposta. Ritrasse nella creazione di Papa Paolo, Sua Santità; e cosí cominciò il Duca di Castro suo figliuolo, e non lo finí; e molte cose ancora aveva incominciate et imbastite, le quali egli non si curava, fattovi un poco su, toccare altrimenti, dicendo: «Io non posso dipignere». Aveva fra' Sebastiano vicino al Popolo murato una bellissima casa, e con grandissima contentezza si viveva, né curava piú cosa alcuna dipignere o lavorare, dicendo essere una grandissima fatica lo avere nella vecchiezza a raffrenare i furori, a i quali nella giovanezza gli artefici per utilità, per onore e per gara si sogliono mettere. E che non era men prudenzia cercare di vivere quieto, vivo, che vivere con le fatiche inquieto, per lasciare di sé nome dopo la morte, le quali fatiche ancor elle hanno avere morte. E per questa cagione egli et i miglior vini, e le piú preziose cose che e' trovava, le voleva sempre per il vitto suo, tenendo molto piú conto della vita che dell'arte. E di continuo aveva a cena il Molza e M[esser] Gandolfo, e facevano bonissima cera. Era amico di tutti i poeti, e particularmente di M[esser] Francesco Berni, il quale gli scrisse un bellissimo capitolo, et esso | gli fece la risposta. Era morso da alcuni nell'arte, i quali dicevano ch'egli era gran vergogna, poich'egli aveva il modo da vivere, che non lavorasse et alcuna cosa di pittura facesse. Et egli rispondeva loro: «Ora che io ho il modo da vivere, non vo' far nulla, perché ci son venuti ingegni che fanno in due mesi quel ch'io soleva fare in due anni e che, se viveva molto, non andrebbe troppo che sarebbe dipinto ogni cosa. E da che essi fanno tanto, è bene ancora che ci sia chi non faccia nulla, acciò che eglino abbino quel piú che fare». E soggiugnendo diceva ancora che era venuto un secolo che i garzoni ne sapevano piú che i maestri e, chi aveva da vivere, bastasse a vivere allegramente perché non si poteva piú far nulla. Era molto piacevole e faceto, né fu mai il miglior compagno di lui. Era fra' Sebastiano tutto di Michele Agnolo; et in quel tempo, che si aveva a fare la faccia della cappella del papa, dove oggi Michele Agnolo ha dipinto il Giudicio, aveva fra' Sebastiano persuaso al papa che la facesse fare a olio da Michele Agnolo, che non la voleva fare se non a fresco; non dicendo né sí né no, si fece acconciare la faccia a modo di fra' Sebastiano. Però stette Michele Agnolo alcuni mesi che non la cominciò; e pure un giorno disse che non la voleva fare se non a fresco, ché il colorire a olio era arte da donna. Pertanto furono sforzati gettare a terra tutta la incrostatura che avevano fatto et arricciare, ché si potesse lavorare in fresco. Per il che Michele Agnolo cominciò subito l'opera, e tenne odio con fra' Sebastiano quasi fino alla morte di lui. Era fra' Sebastiano già ridotto in termine, che né lavorare né far niente voleva, salvo allo essercizio del frate et attendere a buona vita; onde nella età sua di lxii anni, si ammalò di acutissima febbre e grave, la quale per essere egli di natura rubiconda e | sanguigna, gli infiammò talmente gli spiriti, che in pochi giorni rese l'anima a Dio. E cosí inanzi il suo morire fece testamento, lasciando che fosse portato al sepolcro senza cerimonie di preti o di frati o spese di lumi, e tutta la spesa che volevano fare la distribuissero a povere persone per l'amor di Dio; e cosí fu eseguito. Riposero il corpo suo nella chiesa di *** alli *** di giugno l'anno mdxlvii. Né fu perdita alla arte la morte sua, perché subito che e' fu vestito frate del Piombo, si potette egli annoverare tra i perduti. Vero è che per la conversazione sua dolse a molti amici e ad alcuni artefici ancora, come particularmente a Don Giulio Corvatto miniatore, che appresso il Reverendissimo Farnese ha fatto tante egrege opere miniate, le quali si possono mettere fra i miracoli che si veggono oggi nel mondo in quella professione, come ne fa fede uno offiziuolo fatto di storie, che sono divine di colorito e di disegno perfettamente dalle sue dotte mani condotte e lavorate. Le quali, se fossero poste inanzi a quei Romani antichi, confesserebbono esser vinti dalla finezza e bellezza di queste. Per il che, se la grazia di Dio gli concede quella vita che si spera, farà operando cose degne de le maraviglie di questo secolo. | |
|